Basilica di s. Stefano a Bologna 2

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Particolarità e stranezze

Prima di addentrarci alla scoperta delle particolarità del complesso stefaniano, è bene ripercorrere una brevissima storia delle presenze umane che più hanno contribuito all’edificazione del complesso stesso: i Longobardi e i Templari.

La storia longobarda corrisponde al periodo in cui si assiste alla graduale sostituzione del paganesimo con un Cristianesimo ancora incerto, dibattuto tra l’ortodossia cattolica, che aveva il suo centro nel papato romano, e varie eresie, in particolare quella ariana. In realtà, più che una vittoria del Cristianesimo, si impone un sincretismo religioso che vede il messaggio cristiano accettare suggestioni pagane e in parte fondersi con esse.

I Longobardi, inizialmente pagani, divennero ariani e poi cattolici, pur conservando molti elementi del rituale germanico. Anticamente i Longobardi veneravano il dio guerriero Odino (Wotan – Gotan), il cui animale totemico era l’aquila. Odino – Wotan aveva anche le caratteristiche di un mago sciamano, conoscitore della sapienza arcana delle rune. Divinità dalle molte qualità: dispensava la sapienza, conosceva la magia della poesia, era l’inventore dell’alfabeto delle rune. Presiedeva il Walhalla, il paradiso di tutti i guerrieri morti in combattimento. I Germani occidentali praticavano anche il culto della Terra madre, dea di fertilità.

Quando i Longobardi si convertirono alla religione cristiana, Odino – Wotan assunse le sembianze dell’Arcangelo Michele. La testa era considerata il centro della spiritualità dell’uomo e il suo possesso era considerato magico. Da ciò derivavano i rituali, i voti sciolti con le teste del nemici uccisi e l’uso di coppe ottenute col teschio di essi, la scala.

Il semi arianesimo divenne per i popoli germanici una sorta di religione nazionale. Il simbolo della nuova spiritualità è raffigurato in pietra in tutte le loro chiese e continua a vedersi nelle chiese romaniche: la banda intrecciata a più capi, con vimini e viticci, che orna anche le croci. Queste bande, come altre decorazioni a sbalzo con nodi e borchie, avevano per i Germani un significato magico. I santi apparivano tanto più efficaci come protettori quanto più appartenessero, nel vero senso della parola, ai protetti e il possesso delle reliquie era garanzia di benevolenza.

Il Papato fu il grande nemico dei Longobardi. Il perché di tanto dissidio è da ricercare in ragioni non tanto di tipo religioso quanto politiche: il Papato temeva di perdere la propria libertà e il predominio sull’Italia e di diventare strumento di un potere terreno, distolto dall’apostolato e ingabbiato in interessi non suoi, come era capitato alla Chiesa greca, succube del volere degl’imperatori di Bisanzio. La presenza longobarda in Italia e l’iniziale compattezza d’un popolo pagano, poi ariano, ostacolavano decisamente una Chiesa che avviava la proprio ascesa temporale. A nulla valsero la conversione dei Longobardi. Nel 728, la donazione di Sutri al Papato da parte di re Liutprando generò lo Stato della Chiesa e il riconoscimento del suo potere temporale.

 

I Templari invece arrivarono a Bologna probabilmente attorno al 1160, a seguito del Concilio di Pisa del 1135, in cui Bernando di Chiaravalle spronò il Corpo Ecclesiastico a favorire la fondazione dei Cavalieri nei loro territori; un secondo riferimento temporale per determinare quando i templari si stabilirono nella città felsinea, è il termine della lottizzazione dell’area dove nascerà la casa bolognese, che avviene attorno al 1170. Vi sono poi, negli archivi storici cittadini, svariati atti – in particolare testamenti – in cui diversi bolognesi lasciano, in un arco di tempo che va dal 1265 al 1300, beni e denaro alla magione del Tempio bolognese o genericamente ai templari pro Terrasanta, indice di una rilevanza e di una presenza sentita dell’Ordine in Città. Ad ogni modo essi stabilirono sicuramente la loro sede in strada Maggiore, tra vicolo Malgrado e via Torleone (vicinissimo alla basilica stefaniana): l’entrata principale della magione corrispondeva a quello che è oggi Palazzo Scaroli, in strada Maggiore n.80, vicino al monastero di Santa Caterina. Probabilmente il complesso di Santo Stefano non era di proprietà templare ma i Templari rivitalizzarono attraverso i loro rapporti con la Terrasanta.

E ora torniamo alla Basilica e partiamo dal suo esterno che sicuramente racchiude una serie enorme di simbolismi interessanti. Da Piazza Santo Stefano si ha una visione d’insieme che comprende le facciate delle tre chiese del Crocifisso, del Santo Sepolcro e dei Santi Vitale e Agricola.

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Le prime tre chiese del complesso furono edificate sopra un preesistente tempio dedicato ad Iside Vincitrice, come rileva una iscrizione di marmo, trovata nella piazza nel XIII secolo ed oggi murata su un fianco della Chiesa del Crocifisso e che risale presumibilmente al I secolo d.c. La lapide romana dice che un tale Liberto Aniceto, innalzò un’ara ad Iside Vittoriosa, nel nome di Mario Calpurnio Tirone e di Sestilia Armina, sua liberta.

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Iside era considerata la dea della natura, della fecondità, la madre di tutte le cose, la dea universale la dea della maternità e della magia nella mitologia egizia. Iside era considerata divinità in origine celeste, associata alla regalità. Solitamente veniva raffigurata come una donna vestita con una lunga tunica, che recava sul capo il simbolo del trono, mentre teneva in mano l’ankh o l’uadj. Frequenti erano anche le rappresentazioni della dea mentre allattava il figlio Horus. Il suo simbolo principale era il tiet, chiamato anche nodo isiaco. Il tiet era molto simile all’ankh, ma con le braccia rivolte verso il basso.

In Roma, il culto isiaco fu perseguitato a più riprese ma si propagò in tutte le parti dell’impero; più precisamente in Italia, il culto della divinità egizia si sviluppò prevalentemente nell’epoca Imperiale. Il primo a parlare del culto isiaco a Roma è Claudio Ennio (239-169 a.C.). Il Senato romano si pronunciò invece contro i culti isiaci nel 64 a.C. scatenando un forte malcontento popolare; un compromesso si trovò confinando quindi i culti isiaci al di fuori della città di Roma. La persecuzione si aggravò con Tiberio che manifestò le più feroci persecuzioni contro la religione isiaca. Con Caligola invece cambiò del tutto l’atteggiamento del potere: i culti isiaci furono accettati e considerati con maggiore interesse, fino a diffondersi facilmente in tutto l’Impero. L’apice della diffusione del culto si raggiunse con Caracalla (211-217 d.C.) che lo promosse a religione di Stato.

I Cristiani utilizzarono gli edifici pagani per i loro culti a partire dal IV secolo quando il Cristianesimo divenne la religione ufficiale dell’impero e cercarono, per aumentare la facilità di adesione alla nuova religione dei pagani, di mantenere una certa corrispondenza tra il vecchio ed il nuovo. Se normalmente i templi di Iside vennero dedicati alla Madonna o alla Maddalena, nel caso delle Sette Chiese invece il complesso fu intitolato a Santo Stefano, il primo martire cristiano, il cui nome in greco significa “Corona di Vittoria”, ricordando così Iside Vittoriosa.

All’esterno della chiesa del Santo Sepolcro, verso la piazza, a destra del portale spicca la “Pietra della verità” che secondo tradizione cambiava colore sentendo le dichiarazioni delle mogli infedeli. Ma vi è anche un’altra leggenda: la pietra nera era così lucida che le donne vi si specchiavano. Indignato per tanta vanità un santo eremita fece un incantesimo e da quel giorno le donne non videro più i loro volti ma i loro peccati. Il vescovo proibì allora a tutti ad avvicinarsi alla pietra, e prodigiosamente la pietra diventò così opaca da non riflettere più nulla. 

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La facciata esterna della stessa chiesa racchiude però anche molti interessanti simbolismi.

Intanto vi è, sulla sinistra del portale, un florilegio di nodi di Salomone e il Nodo viene riportato anche in un quadrato accanto alla porta, sulla destra.

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Non si è certi del momento né del luogo in cui il Nodo di Salomone comparve per la prima volta, ma s’è potuto stabilire che probabilmente ebbe origine nella Preistoria e certamente sorse contemporaneamente in diverse parti del Mondo, dove assunse sempre un significato profondo e vitale, dalle connotazioni sacre.

La più antica figurazione del Nodo di Salomone finora conosciuta risale a circa 6.500 anni fa, ed è stata trovata in Romania, nelle vicinanze di Bucarest. Si tratta di un’immagine che ha un significato altamente sacrale e che rimanda al culto della “Grande Madre”. L’arte celtica, che basò la maggior parte della propria estetica decorativa sul nodo e l’intreccio, fu sicuramente quella che vi diede il massimo risalto e poi, quando il mondo gallico fu conquistato dalle legioni romane, dal I secolo d.C., il Nodo di Salomone fu diffusamente utilizzato per ornare i mosaici pavimentali delle ricche ville gentilizie, delle terme e dei templi sacri, un po’ in tutte le province dell’impero. Nel III secolo, poi, dall’ambito romano passò gradualmente a quello paleocristiano, e quindi il suo utilizzo raggiunse il culmine attorno al IV secolo d.C., quando il simbolo fu nello stesso tempo pagano, ebraico e paleocristiano.

La sua forma più semplice è costituita da due anelli schiacciati e sovrapposti ortogonalmente, uno verticale e l’altro orizzontale, intrecciati tra loro nella parte centrale, in modo da formare una sorta di croce con due ellissi, le cui estremità sono arrotondate. Col tempo poi, da questa figura elementare sono andate evolvendosi altre forme più elaborate e complesse che, pur mantenendo sempre lo stesso schema di base, a volte sono state completate da alcuni elementi decorativi, o aggiunti altri anelli.

L’ebraismo trovò confacente il simbolo alle sue austere concezioni religiose e tutto lascia supporre che esso sia stato proposto come simbolo d’unione, d’alleanza fra Dio e il popolo eletto, fra la legge e il fedele, un significato che fu attribuito anche al “sigillo di Salomone”, o “stella di Davide”, di più tarda adozione. Il motivo per il quale il Nodo è stato associato al nome del re Salomone va ricercato nel leggendario ed estremo equilibrio attribuito al sovrano biblico, il quale ricevette direttamente da Dio, di là dei suoi meriti personali, il dono della più grande saggezza mai posseduta da un uomo. Per questo, egli fu il personaggio che più d’ogni altro divenne emblema del discernimento, della giustizia e dell’equanimità. La forma del motivo ornamentale in questione, infatti, suggerisce molto bene questo senso d’equilibrio e di giusta distribuzione, suddivise egualmente tra gli elementi che lo compongono e che sono saldamente uniti tra loro. Ma il nodo di Salomone simboleggia soprattutto l’unione profonda dell’Uomo con la sfera del divino.

In un altro riquadro immediatamente accanto alla porta, sulla sinistra troviamo invece quella che sembra una stilizzata croce patente e questo lascia supporre che i due riquadri siano stati apposti in epoca successiva all’edificazione della chiesa.

Sempre sulla stessa facciata possiamo vedere due interessanti quadri, raffiguranti una chimera a destra e un grifone a sinistra.

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In epoca pre-cristiana la chimera sarebbe stata l’antica raffigurazione della Dea-Madre mediterranea, preindoeuropea, una dea lunare alata il cui corpo era per metà leone e per l’altra metà serpente, a loro volta, appunto, simboli delle due stagioni nelle quali l’anno era diviso. Nel Medioevo essa simboleggiò invece la prostituzione. Nel XII secolo il poeta Marbodo, nelle sue invettive in versi contro la donna, fonte di ogni peccato, le grida: “Chimera, ti è giustamente stato dato un aspetto triforme, davanti di leone, dietro di drago, e in mezzo nient’altro che un fuoco ardente; una chiara immagine della natura della prostituta, poiché, per ammaliare la sua preda, essa si presenta con un muso di leone, simulando una certa apparenza di nobiltà; avendo con questa speciosità, catturato le sue vittime, le divora tra le fiamme della sua passione amorosa…” Come a dire che la realtà fittizia costruita su illusioni e fantasticherie, non solo è luogo di chiusura ed autismo, ma schiaccia l’essere umano poiché, precludendone ogni relazionalità, lo esclude dalla vita. La figura mitologica della Chimera era pertanto sinonimo di una somma di vizi: la violenza del leone, la perfidia e l’oscurità del serpente, e la lussuria della capra. A questo proposito mi preme sottolineare che almeno fino a pochi anni fa, all’interno di questa chiesa si svolgevano particolari riti purificatori, compiuti dalle prostitute bolognesi.

 

Dalla parte opposta troviamo invece il grifone. Il grifone, in quanto unione tra animale terrestre e animale dei cieli, era usato nella cristianità medievale come simbolo della doppia natura, terrestre e divina, di Gesù Cristo, ma anche e soprattutto, in età carolingia come emblema negativo, di un animale rapace che trascinava con i suoi artigli, le anime verso l’abisso.

Più in alto invece alcune stilizzazioni del fiore della vita, sulle quali torneremo più avanti.

2. continua

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