Basilica di s. Stefano a Bologna 3

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Spostandoci verso sinistra ci troviamo di fronte al portale della chiesa dei santi Vitale e Agricola.

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In alto, nelle punte degli archetti, in rilievo una serie di immagini di difficile interpretazione: animali, personaggi, facce mostruose, botti, strani animali tra i quali è interessante una scimmia che si copre gli occhi (con accanto pezzi di un bassorilievo che potrebbe essere un nodo isiaco) e pezzi di probabili altri monumenti e ceramiche intonacati negli archi.

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Ipotizzo quindi che questi pezzi, che sembrano messi a caso e tutti frammentati, potessero aver fatto parte del tempio isiaco preesistente. Sul portale invece balza agli occhi un bassorilievo raffigurante i santi ai quali la chiesa è dedicata, poi altri florilegi, fiori della vita, simboli solari, croci patenti templari, nodi di Salomone e quella che si pensa una croce di Ildegarda, emblema templare, che però personalmente non ritengo tale perché i templari, all’epoca della costruzione della chiesa, erano lontani ancora circa 700 anni.

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Ritengo invece anche questo un fiore a cinque punte (simbolo della famiglia isiaca) con intorno una specie di gigli fiorentini, che potrebbero essere raffigurazioni dell’ankh egizio e quindi ancora proveniente dal preesistente tempio isiaco.

Accanto al portone due capitelli interessanti: il primo in alto lascia intravvedere un drago che è beccato da un’aquila e sotto una serie di teste umane, poi accanto due teschi e sotto un pegaso (cavallo alato) che tiene una zampa su un agnello e un uomo che gli tiene il muso.

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Il simbolismo del drago beccato dall’aquila è chiarissimo: l’aquila è il simbolo di Cristo, immagine della sua potenza e protezione ed Egli aggredisce il drago, da sempre personificazione del male, del diavolo. Le persone sotto sono coloro che si sono poste sotto la protezione di Cristo. La seconda parte dello stesso capitello probabilmente sta a significare l’uomo che si aggrappa alla vita spirituale e attraverso essa riemerge dalla morte (interessante notare l’iconografia vicinissima di Pegaso e della Chimera che, in mitologia, viene uccisa proprio dal cavallo alato di Bellerofonte). Il secondo capitello invece riporta due persone abbracciate, probabilmente Vitale e Agricola e accanto un drago a due teste che tenta di sbranare un uomo lo cavalca: sappiamo che il drago è sempre la rappresentazione del male, del diavolo e quindi il capitello significa che l’uomo, attraverso la fede non deve aver paura del male, ma può dominarlo, anche se rischia di perdere qualche piccola parte del proprio essere.

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Questa chiesa continua con la sua fiancata sinistra che chiude il complesso. Ed è proprio la facciata laterale a lasciarci di stucco per quello che presenta. Oltre, anche qui, la fine degli archetti con figure antropomorfe, o animali, o simboliche (fra le quali spicca il quadrifoglio con accanto un bel volto di donna e probabilmente una mammella: tutte raffigurazioni isiache)

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sono di grande interesse i bassorilievi all’interno degli archetti stessi, pur se perlopiù molto rovinati dal tempo. Alcuni sono di difficile interpretazione ma altri abbastanza eloquenti: un uccello che non si capisce di quale razza sia, una mosca (insetto immondo per antonomasia, associato a malattie e sporcizia, è uno dei tanti simboli del diavolo), e un probabile leopardo (il mantello macchiato è simbolo delle macchie del peccato e l’animale era molto usato, insieme ai leoni, nelle arene dove venivano condannati i cristiani).

Ma una lunetta ci riserva un bassorilievo davvero sorprendente: la raffigurazione di otto statuine identiche ai Moai dell’isola di Pasqua!

L’Isola di Pasqua è un’isola dell’Oceano Pacifico meridionale appartenente al Cile. Furono i polinesiani i primi a colonizzare quest’isola. Una possibile colonizzazione a più ondate può essere avvenuta tra il 1100 d.C e il 1600 mentre altri ritengono che essa sia avvenuta in un’unica fase tra il 900 d.C. e il 1100. Il primo europeo a sbarcare ufficialmente sull’isola fu l’olandese Jacob Roggeveen, la domenica di Pasqua 1722, motivo per il quale l’isola fu battezzata Isola di Pasqua. L’isola è famosa per i grandi busti chiamati Moai. Nonostante le ricerche il loro scopo non è tuttora noto con certezza. Il significato più comune tramandato dagli attuali discendenti maori è quello di essere monoliti augurali, portatori di benessere e prosperità dove volgono lo sguardo. Per questo nell’isola di Pasqua molti di essi sono rivolti verso il mare, per auspicare sempre un’abbondante pesca. Si ritiene inoltre che i piccoli moai siano le rappresentazioni degli antenati defunti o di importanti personaggi della comunità, a cui vennero dedicate come segno di riconoscenza, mentre per quelli grandi tra le tante spiegazioni possibili vi è anche quella a sfondo religioso. Gli isolani credevano che queste statue avrebbero catturato i “mana” (poteri soprannaturali) del capo, oltre a favorire la protezione degli dèi.

Dal 1500 d.C. in poi non vengono più eretti nuovi moai, bensì quelli esistenti vengono abbattuti e da quel momento si inizia la venerazione dell’Uomo Uccello: un essere per metà uomo e per metà uccello la cui elezione si eseguiva in primavera (sovrapponibile al nostro periodo pasquale). Quali siano le origini di questa credenza non sono note, certo è che su molte isole popolate dai polinesiani si venerava già in passato l’uomo uccello. Si può presupporre quindi che questo tipo di culto abbia origini lontane e che fosse già praticato dalla popolazione indigena prima del 1500 anche se probabilmente in forma minore. Ma è possibile che su una chiesa del IV secolo italiana fossero rappresentati i moai? Probabilmente non lo sapremo mai e le mie rimangono ipotesi fantastiche, ma vi invito a considerare alcuni aspetti.

Da sempre si è parlato e favoleggiato di viaggi e scoperte da parte dei templari, ma già prima da parte dei Romani, di terre americane, anche se non abbiamo mai avuto la prova che questi siano stati davvero effettuati. Recenti studi però paiono confermare questa ipotesi e, come primo indizio, vengono riportate le diverse raffigurazioni di ananas presenti su alcuni pavimenti romani, ville romane e, vedremo poco più avanti, anche sul portone laterale di questa chiesa.

Per esempio girando nel Museo del Palazzo Massimo alle Terme di Roma si può vedere un pavimento a mosaico del secondo piano, datato agli inizi del I secolo dopo Cristo, che riproduce un cesto di frutta con alcuni fichi, delle mele cotogne, un grappolo di uva nera, alcune melagrane e un alimento ritenuto sconosciuto all’epoca: un ananas. Anche in un affresco trovato nella casa dell’efebo a Pompei mostra un ananas ed una statuetta romana, conservata a Ginevra, rappresenta un bambino che tiene per il ciuffo un ananas. Impossibile parlare solo di coincidenze, è evidente, anche se non si sa come, che i romani all’inizio del I secolo d.C. conoscessero già l’ananas. Si è pensato alla possibilità di scambi commerciali oltreoceano o di importazioni dall’Africa occidentale, dove l’ananas è coltivato. E vi sono nuove prove archeologiche e scientifiche che confermano che, ben prima di Cristoforo Colombo, i Romani avessero attraversato l’oceano Atlantico ed avessero raggiunto l’America sono raccolte in ‘Quando i Romani andavano in America’ – conoscenze scientifiche e scoperte geografiche degli antichi navigatori – (Palombi Editore) scritto da Elio Cadelo.

Tra le nuove prove presenti vi sono le analisi del DNA compiute sui farmaci fitoterapici rinvenuti in un relitto romano del primo secolo d.C. davanti alle coste toscane. “Su quella nave, infatti, viaggiava anche un medico e questo gli archeologi lo deducono dal fatto che sono state ritrovate fiale, bende, ferri chirurgici e scatolette sigillate contenenti pastiglie composte da numerosi vegetali, preziosissime per la conoscenza della farmacopea nell’antichità classica. Le analisi del Dna dei vegetali contenuti in quelle pastiglie, infatti, – osserva Cadelo – hanno confermato l’uso, già noto, di molte piante officinali, tranne due che hanno destato forte perplessità: l’ibisco, che poteva solo provenire da India o Etiopia e, soprattutto, i semi di girasole, girasole che, secondo le cognizioni fino ad ora accettate arrivò in Europa solo dopo la conquista spagnola delle Americhe”. D’altro canto la presenza in mosaici, dipinti e statue di età romana di Ananas e Mais sono la prova che tra le due sponde dell’Atlantico ci furono scambi commerciali. Le navi romane erano attrezzate per lunghe navigazione ed erano in grado di raggiungere le sponde del continente americano: potevano, infatti, navigare controvento ed erano “rinforzate” in piombo per affrontare in sicurezza le traversate transatlantiche. Per non parlare del mais, una pianta di sicura origine americana, le cui pannocchie sono descritte già da Plinio il Vecchio nella Storia Naturale 1500 anni prima della scoperta del Nuovo Mondo. I Romani, quindi, andarono in America molto prima di Cristoforo Colombo.

Torniamo quindi alla strana raffigurazione presente nella lunetta. Come potete vedere la somiglianza è davvero notevole, nonostante il degrado delle statuine: notate il caratteristico copricapo e la disposizione delle statuine a figura intera, con accanto le sole teste (se ben guardate sono visibili i lineamenti umani).

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Possiamo ipotizzare che le statue moai, siano state una “invenzione”, un’idea importata dagli europei ai popoli polinesiani? Interessante è anche notare che la costruzione dei moai è iniziata intorno al 1100 e che questa chiesa e le statuine sono di ben precedente fattura. E non può non farci riflettere l’ulteriore culto che si è sviluppato sull’Isola dopo il 1500, dell’uomo uccello. Possiamo ipotizzare che fosse stato importato anche in quelle terre lontane il culto cristiano e che i nativi abbiano pensato di rappresentare la croce con Gesù sopra, come l’allegoria di un uomo con le ali aperte? O di aver pensato a un Gesù/uomo che ascende ai cieli come a un uccello? Di sincretismi storici ce ne sono stati a migliaia, forse anche questo può avere una sua logica. Ora, io non sono né un’archeologa, né una storica dell’arte, ma sarebbe interessante provare a vedere se da qualche parte del mondo romano ci siano altre rappresentazioni similari ai moai, per esempio a partire dal particolare copricapo.

Proseguendo nel laterale della chiesa di san Vitale e Agricola arriviamo al portone, ai cui lati troviamo ulteriori sorprese. Ecco di nuovo due bellissimi capitelli: nel primo vediamo una donna al cui fianco sta un leone nel tentativo di azzannarla e un uomo in preghiera attorniato da strane presenze. Il leone significa in questo caso il pericolo umano e spirituale, le forze demoniache che cercano di uccidere la fedele cristiana, mentre le strane presenze accanto all’uomo indicano che il male e le lusinghe, i sogni e le debolezze umane possono essere vinte dalla preghiera. Molto interessante qui è vedere la donna aggrappata a una palma dove sopra troneggia proprio…. un’ananas (della quale accennavo poc’anzi).

Nel secondo capitello invece vediamo ben delineate tre figure: un angelo, una sirena e un corvo. Il corvo e la sirena ci parlano delle oscure passioni, quelle legate alla lussuria e quelle che ti portano ad abbandonare la fede perché non si sopportano le tempeste della vita. Davanti a queste passioni e malìe c’è l’angelo che indica la strada verso il cielo al fedele.

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Questi capitelli sono davvero molto belli. Infine sul portale troviamo incisa la scritta “Vis Caesaris II inchoavit” che vuol dire che il portale fu iniziato durante la vita di Cesare II (forse Cesare II Gonzaga del XVII sec).

Ma torniamo ora a visitare l’interno del gruppo stefaniano per carpirne altri segreti. L’entrata è sempre dal portone della chiesa longobarda del S. Crocifisso. Sotto di essa vi è una cripta che racchiude una particolarità. In essa vi sono diverse colonne, tutte di diversa altezza e larghezza; ma una di queste colonne, la seconda a destra, formata di due parti in pietra di marmo bianco, è stata portata, secondo la tradizione, da Petronio, di ritorno da Gerusalemme e rappresenta l’altezza di Gesù (circa 1,70 mt). 

Attraversando la chiesa del santo Sepolcro della quale abbiamo già parlato diffusamente nel secondo articolo, passiamo nella chiesa di san Vitale e Agricola. Alla base della seconda colonna a sinistra, partendo dall’altare, si trova incisa una Triplice Cinta di arcaica fattura, tant’è che qualcuno l’ha ripassata con il colore rosso per renderla maggiormente visibile.

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I tre quadrati sembrano rappresentare tre recinti, interni l’uno all’altro, e la caratteristica di questi recinti è quella di essere attraversati da quattro linee, disposte a forma di croce, che collegando le tre cinte finiscono con il raggiungere il perimetro del quadrato più interno e centrale. Questo enigmatico simbolo è quasi sempre in prossimità di luoghi sacri. Ma non è raro trovare il simbolo in questione anche presso luoghi di pellegrinaggio medievali, a volte graffito sull’intonaco di un affresco votivo, accanto a croci, stemmi e firme di devoti, oppure inciso su colonne, stipiti o architravi di chiese e santuari medievali. Curioso scoprire che il simbolo della Triplice Cinta era già attestato nell’antica tradizione celtica e così come è avvenuto anche per altri simboli di origine celtica, il simbolo della Triplice Cinta avrebbe continuato ad essere rappresentato fino al Medioevo. Si tratterebbe dunque di un antichissimo simbolo di geometria sacra, anche se alcuni studiosi sono invece convinti che la triplice Cinta rappresenti soltanto un gioco, qualcosa di simile al nostro “filetto” o alla “dama” (personalmente non sono propensa a questa teoria, per vari motivi). Nella simbolica cristiana delle figure geometriche, il Quadrato rappresenta il Mondo, che è letteralmente la Mappa Mundi, la tovaglia del mondo, il nostro “mappamondo”. Tre quadrati inscritti l’uno dentro l’altro, con centro unico, ovvero formanti un solo e medesimo insieme, rappresentano i tre Mondi dell’Enciclopedia del Medioevo, il Mondo terrestre in cui viviamo, il Mondo del firmamento in cui gli astri muovono i loro globi radiosi in immutabili itinerari di gloria, infine il Mondo celeste e divino in cui Dio risiede insieme ai puri Spiriti. Si tratta quindi di una spiegazione di carattere cosmologico, che potrebbe giustificare il fatto che spesso troviamo questo simbolo tracciato alla base di molte chiese medievali: in tal caso il simbolo della Triplice Cinta rappresenterebbe, su diversi piani simbolici, il percorso del Pellegrino. Al di là di quello effettuato nello spazio (e nel tempo), questo percorso era principalmente percorso interiore, ed infatti la stessa immagine labirintica indica che la meta del viaggiatore è il centro, inteso come simbolo di ciò che di centrale esiste nell’esistenza di ognuno.

Dalle prime tre chiese del complesso si entra nel magnifico Cortile di Pilato, ricchissimo di simbolismi, primi fra tutti le tantissime scacchiere e fiori della vita che troviamo riportati sui muri, di ogni forma e colori. Davvero molto belli. Ripercorriamo un attimo queste simbologie.

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La scacchiera. Alcune leggende di epoca medioevale ci riportano in ambito biblico e testimoniano del diletto per gli scacchi di Abramo o di Sem figlio di Noè; alcuni manoscritti arabi testimoniano come il gioco fosse praticato da Salomone e dai membri della sua corte corpo umano, ovvero al quadrato di base, l’ashtapada, trasposizione simbolica del mondo, disposizione spaziale ordinata e orientata del creato. In tale contesto, e diversamente rispetto ai giochi in cui il destino determinava ogni mossa, l’uomo, ormai percepito come artefice del proprio destino, agiva in prima persona, mettendo in atto le proprie strategie e sfruttando le sue capacità intellettive in una guerra intesa anche e soprattutto quale conflitto interiore tra vizio e virtù, tra bestialità ed superamento di sé. Il tavoliere a scacchi divenne pertanto il campo d’azione delle potenze opposte: in esso la luce si opponeva al buio, il giorno alla notte, la vita alla morte, lo spirito alla materia, il bene al male. E in questo campo fittizio l’uomo poteva mettersi alla prova e fare le sue scelte, poteva escogitare la strategia più efficace per vincere la battaglia quotidiana contro il maligno.

Il fiore della vita. (anche: rosa dei pastori, rosa carolingia, rosa celtica, stella fiore, stella rosetta), è una figura geometrica composta da cerchi multipli sovrapposti e composti a formare una figura simile a un fiore. Nella decorazione architettonica è nota la presenza di questa figura in molte parti del mondo, e in area Italica sin dall’VIII secolo a.C.; successivamente ha avuto larga diffusione dal Medioevo fino ai giorni nostri. Durante il Medioevo, questo simbolo decorativo, avrà larga diffusione sulle architetture civili e religiose lungo tutta la fascia montana e pedemontana dell’Appennino, lungo le antiche vie Francische, più o meno collegate con i diverticoli alla via Francigena, e intorno al XIII-XIV secolo lo ritroviamo, erratico, anche sulle architetture religiose dei Cavalieri del Tempio. Molte credenze spirituali sono associate al simbolo del fiore della vita, che è considerato un simbolo di rinascita, rigenerazione, gioia e speranza. La rosa da sempre è stata considerata un simbolo mistico sacro ai cavalieri del Tempio, perché raffigurante il sangue di Cristo, il Graal, il femminino sacro. Accanto al fiore della vita vi sono altre raffigurazioni che gli sono simili: il Seme della Vita è formato da sette cerchi posizionati secondo una simmetria esagonale. Il Seme della Vita rappresenterebbe simbolicamente i sette giorni della creazione operata da  Dio e raccontata all’interno della Bibbia. Il simbolo dell’Uovo della Vita è composto da sette cerchi presi dallo schema del Fiore della Vita. Poi vi sono i simboli che richiamano il numero otto, come la rosa ad otto petali, sono stati diffusamente utilizzati nell’arte e nell’architettura antica e medievale. Il numero otto indica anche l’ottavo giorno della creazione, ossia la nuova creazione che inizia con la resurrezione di Cristo, per cui l’otto indica la rinascita attraverso il battesimo, della resurrezione, della vita eterna. 

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Nello stesso cortile, abbiamo già accennato alla presenza di una lapide con sopra delle forbici. Potrebbe trattarsi della lapide di un sarto, ma personalmente trovo strano che un semplice sarto abbia potuto permettersi una tomba o una lapide all’interno di un così prestigioso complesso monacale. In base ad altri simboli che troveremo fra poco io invece ritengo possa trattarsi di un ultimo stadio dell’ostentatio vulvare, cioè dell’oggetto che, per la sua estrema simbologia uterina può garantire fertilità e procreazione alle giovani coppie di sposi, è il ricordo di atavici culti mai del tutto sopiti ancora oggi, tant’è vero che questa lapide si trova proprio accanto alla cappellina delle partorienti, così chiamata perché in essa andavano a pregare le donne incinte per un buon parto e soprattutto un buon allattamento. Sopra al portale della stessa cappellina troviamo infatti un gallo che sicuramente voleva ricordare il pennuto che cantò dopo il triplice rinnego di Giuda verso Gesù, ma che è anche un tipico elemento maschile di procreazione. Da sempre l’uomo antico ha trovato nei simboli sessuali elementi apotropaici capaci di allontanare le forze maligne ed assicurare, ad una famiglia, ad una costruzione, ad una città, fertilità, procreazione e rinascita. Da qui l’usanza, in realtà mai scomparsa da diecimila anni ad oggi, di rappresentare queste strane forme sessuali sui luoghi di culto e nell’architettura comune.

E non dimentichiamo che questo cortile si trova ancora all’interno del tempio isiaco preesistente del quale, con sicurezza rimangono alcune colonne marmoree nella Chiesa del Santo Sepolcro, mai rimosse dalla loro sede, e la fonte di acqua miracolosa che anticamente rappresentava il Nilo e successivamente il Giordano. L’archeologia ci ha riportato moltissimi amuleti di piccolissime dimensioni ispirati a Iside, per i suoi poteri di guarigione, ma soprattutto di protezione delle donne incinte e dei neonati. E infatti da qui in poi ritroviamo molti simboli del culto mariano perfettamente sovrapponibili però all’iconografia e agli attributi di Iside. Esistono tratti comuni nell’iconografia relativa a queste due figure, ed è ragionevole supporre che l’arte paleocristiana si sia ispirata alla raffigurazione classica di Iside per rappresentare la figura di Maria: la similitudine in vari dipinti si ritrova per esempio nei tratti delicati ed eterei, nel tenere entrambe in braccio un infante che è Gesù nel caso della Madonna ed Horus per Iside. Iside viene anche rappresentata spessissimo in trono mentre allatta Horus, con il viso rivolto verso Horus, generalmente verso destra. L’allattamento di Horus richiama uno dei nomi di Iside, Isis Lactans, il cui latte dona l’immortalità.

Senza addentrarci troppo nel culto isiaco mi preme sottolineare alcune similitudini fra la religione egizia e il culto mariano: la prima Sacra Famiglia fu egizia: Osiride, Iside e Horus; l’Immacolata Concezione era presente in una variante del mito di Osiride (figlio/fratello di Iside) in cui Horus viene messo al mondo senza ricorrere alla sessualità; Iside è la sempre vergine (un tempo la dea Hathor mise al mondo cinque figli, tra cui Osiride ed Iside, che amandosi teneramente si sposarono – fiore a cinque petali. Iside poi concepì Horus-Arpocrate, l’Unigenito da Osiride, prima ancora di nascere, essendo ancora entrambi nel ventre della loro madre Hator. Pur amando il fratello-marito Osiride, non poté mai unirsi a lui, in quanto privo del fallo e, pertanto, rimase eternamente vergine).

Tornando dalle divagazioni riprendiamo il percorso all’interno del complesso stefaniano. Alla nostra sinistra si aprono alcune piccole cappelle, una delle quali dedicata in anni recenti alla patrona degli aviatori: la Madonna di Loreto…sì ancora una madonna nera, come nera era Iside. Dal fondo del cortile invece si accede alla chiesa del Martiriium, ormai totalmente stravolta dai vari rifacimenti, soprattutto alla fine del 1800. Però in essa troviamo ancora qualcosa di interessante. Un’altra antichissima raffigurazione di Maria incinta, nella tipica iconografia di Iside che la vuole raffigurata con la mano sul petto, e un capitello con delle sirene bicaudate.

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Questo capitello, che probabilmente è rimasto dalle colonne che chiudevano il tempio di Iside antico, hanno un evidente simbologia isiaca, dato non solo dalle sirene, ma soprattutto dalla presenza del fiore a cinque petali (isiaco) che le sovrasta. La sirena bicaudata mette chiaramente in evidenza la parte femminile più intima. Tale rappresentazione sembra strutturarsi come un chiaro riferimento alla grandissima unicità della donna di poter creare la vita, di presentarsi come il tramite attraverso cui è possibile una incarnazione nel mondo terreno. La sirena bifide è presente in moltissime chiese italiane, in un simbolo che lunghi dal dimenticare le sue origini pagane ben ripropone, sotto altre vesti l’antica dea della fertilità e delle acque, elemento ben evidenziato proprio dalla coda di pesce (e ricordiamo che Iside era sia la dea della fertilità, sia la dea delle acque).

Dalla chiesa del Martiriium ci portiamo infine verso il bellissimo chiostro e l’attiguo piccolo museo. Del museo, comunque da visitare, non c’è molto da dire se non sottolineare due presenze: una serie di tavole in legno che probabilmente costituivano parte di una delle chiese stefaniane e che riportano un classico bestiario medioevale tra il reale e il fantastico, e un’antichissima reliquia che dicono sia il velo della Madonna.

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Ed è interessante scoprire per l’ennesima volta che Iside presiedeva le nave egizie e le sue vele: il velo d’Iside veniva sostituito con un miracoloso velo al quale si rendeva venerazione, nel sacro rito isiaco e il culto veniva tramandato con il viaggio simbolico di navi nel Tevere. Quindi Iside era una dea della quale si venerava il velo, e anche in questa chiesa ritroviamo un’antica reliquia di una benda, di un velo della Madonna/Iside.

Analizziamo quindi l’ultima parte monumentale: il chiostro. Esso fu edificato in epoca successiva alla maggior parte del complesso, anche se parliamo sempre del X-XII secolo, quindi in pieno periodo templare.

Innanzi tutto pochi sanno che verso la fine del portico a sud (quello a sinistra, entrando), ai piedi di una colonnina che sorregge il portico, vi è un’altra Triplice Cinta, il simbolo del quale abbiamo già parlato. Poi, sulle pareti interne troviamo diversi frammenti marmorei fra cui spicca un florilegio di tipica provenienza longobarda e un pavone. Il pavone era ritenuto, già dai Romani, l’emblema dell’incorruttibilità, dell’immortalità dell’anima e della risurrezione.

Ma la parte straordinaria ed enigmatica del chiostro sta nei capitelli a nord (a destra, entrando) del colonnato superiore ed è tanto più enigmatica quanto si sa che questi sono stati fra gli ultimi manufatti del complesso. Una volta dovevano attrarre molto l’attenzione visto che tutti dovevano avere gli occhi ben in evidenza e probabilmente rivestiti di materiali che li facevano brillare. Si è pensato alla raffigurazione dei sette vizi capitali, ma i conti non tornano; si è pensato alla raffigurazione di passioni umane che il monaco doveva rigettare, ma anche così risulta difficile farglieli tutti rientrare; e poi perché raffigurare questi capitelli nel loggiato in alto dove erano relegati i monaci ma in modo che loro non potessero vederli?

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Io azzardo una nuova ipotesi: una raffigurazione dei culti osiridei-dionisiaci (Osiride marito/fratello di Iside). D’altra parte non è che nel Medioevo non si conoscesse il culto isiaco preesistente in quel luogo e forse, sempre in epoca templare, si è tentato di riportare emblemi del culto osirideo egizio, da parte di corporazioni gnostiche templari. Se il culto di Iside ha moltissimi paralleli con il culto mariano, il culto di Osiride ne ha altrettanti con quello cristiano. E a sua volta il culto osirideo è stato identificato con quello dionisiaco. Osiride-Dioniso: queste divinità erano strettamente correlate e condividevano molte caratteristiche, soprattutto l’essere divinità maschili, parzialmente umane e legate a un ciclo di vita-morte-rinascita. Osiride e Dioniso infatti sono stati eguagliati sin dal V secolo a.C. dallo storico Erodoto.

Sin dagli inizi, a Roma il culto di Iside fu strettamente vincolato a quello di Osiride in sincretismo con il bue Apis. Se Iside era la celebrazione della vita, Osiride ucciso e poi risorto grazie all’intervento di Iside, rappresentava il trionfo sulla morte. Altre correlazioni con il successivo culto cristiano le abbiamo analizzando altri elementi: l’eucarestia era formata anche nella comunione osiridea dal pane e dal vino; il Dio supremo era Uno e Trino (Dio Padre/Ra – Dio Figlio/Osiride – Dio Spirito/Horus); la comunione dei fedeli nel corpo del dio; Osiride era il primo salvatore degli uomini; Dio Padre (Ra) aveva sacrificato il proprio figlio, il quale poi era risorto dalla morte; le iniziazioni avvenivano attraverso un battesimo di acqua e sangue.

Dioniso invece era una divinità della religione greca. Inizialmente fu un dio arcaico della vegetazione, in particolare legato alla linfa vitale che scorre nei vegetali. Dioniso solitamente si accompagnava in gioiose processioni con bestie feroci, satiri e sileni. Era il dio straniero per eccellenza, poiché proveniva dalla Tracia. Egli veniva spesso invocato con l’appellativo di toro. Fratello di Minerva venne ucciso perché figlio illegittimo di Zeus, ma in seguito resuscitato dal padre ed entrato nell’Olimpo e nel mito. Queste e altre caratteristiche di Dioniso erano perfettamente sovrapponibili a quelle di Osiride e poi trasferite sulla figura di Cristo.

Ecco perché, secondo me, nei capitelli si sono voluti riprendere emblemi che caratterizzassero Osiride/Dioniso/Gesù. Il primo capitello estremamente significativo è quello del toro, simbolo dell’epifania divina: il toro fra i popoli antichi fu considerato come il simbolo della fecondità e della forza generatrice, proprio per questo Dioniso ne assumeva di preferenza l’aspetto quando si presentava ai suoi fedeli. Poi sono raffigurate le processioni dionisiache che nel mito prevedevano sileni e satiri con capitelli rappresentanti appunto queste figure (satiro con le orecchie a punta, silene con le corna caprine/aretine). Un capitello con testa dalla cui bocca escono due serpenti, ma potrebbero anche essere due tralci iniziali di vite e Dioniso, come abbiamo visto, era anche il dio della vegetazione e uno dei suoi emblemi era la vite (tanto che per un periodo fu identificato, erroneamente, con Bacco, il dio del vino). Il capitello con il ragazzo a gambe incrociate potrebbe essere la raffigurazione del dio che cerca di sollevarsi dal peso della morte. L’uomo che si tiene la barba ed è sdraiato, potrebbe essere il dio (Ra o meglio Zeus) che guarda dai cieli. Il volto molto più piccolo potrebbe essere di un giovinetto e quindi significherebbe l’incarnazione umana del dio. E infine il capitello più particolare: un uomo arrampicato, nudo e che mostra con buona evidenza l’orifizio anale, con la testa voltata di 180° che potrebbe rappresentare la figura mitica di Ampelo, il giovanissimo satiro che venne sodomizzato da Dioniso. E se questo capitello fosse la raffigurazione di una sodomia, si potrebbe comprendere per quale motivo, in epoche ancora successive alla sua costruzione, solo sopra di esso sia stata scritta l’ave maria, quando nulla in questo chiostro ci parla della madonna.

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Che dire ancora? Io ho provato a gettare qualche ipotesi per alcuni elementi meno attenzionati. In ogni caso una basilica che vale la pena visitare a Bologna e che richiederebbe libri di studi su di essa.

FINE.

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