I riti tradizionali delle “medicone” romagnole e gli esorcismi
traggono le origini da antichi rituali religiosi.
Da molto tempo sono scomparse dalle campagne romagnole quelle donne (generalmente definite “medicone”) che aiutavano i propri vicini a guarire dalle malattie; che fossero vere e proprie affezioni organiche, o dipendenti da problemi psicologici che finivano per “somatizzare” i sintomi in disagi fisici (come ci ha insegnato a chiamare questo fenomeno la medicina) non era importante: l’origine veniva sempre considerato la stessa, vale a dire la presenza di qualcosa di maligno, di estraneo alla situazione considerata normale, e trattata allo stesso modo. Perciò l’elemento estraneo andava estirpato.
Il metodo è sufficientemente noto: la donna (ma non mancavano gli uomini) eseguiva generalmente una serie di manipolazioni sul corpo del malato, le più comuni delle quali erano quelle di tracciare dei segni sul corpo del paziente, con le mani nude o con l’aiuto di elementi vegetali (paglia, tralci di viti) o di uso comune (forbici, aghi da cucito, pezzi di stoffa, gomitoli di lana, un crocefisso, il rosario) recitando alcune formule di solito intellegibili.
Da qui l’uso comune di identificare queste pratiche con il nome di “segnare i mali”.
In questi metodi sono rinvenibili, evidentemente, anche i residui di antiche pratiche che si rifacevano alla medicina popolare, quella che utilizzava pozioni ed erbe curative, e che ebbe una grande importanza sociale fin dall’antichità.
Con il tempo in queste pratiche si finì per perdere l’aspetto curativo dovuto agli elementi naturali (che ha avuto poi la sua filiazione nella moderna farmacopea e nell’erboristica); nelle tradizioni popolari ne è rimasto semplicemente l’aspetto rituale, l’idea che l’effetto positivo fosse dovuto soprattutto al gesto, alla recitazione di litanie e, cosa non da sottovalutare, al fatto che il malato credesse fortemente in queste manipolazioni.
II Tutto ciò trae origine da credenze che il sistema nervoso limbico ha ereditato dai nostri antichi predecessori, e che riguardano il concetto dell’origine del male.
I primi concetti delle divinità, che solo con molta cautela sono definibili come religiosi, suddividevano le stesse in due principi assoluti: il male ed il bene, principi in contrapposizione tra loro e con un potere simile, tale che non c’era la possibilità che uno potesse prevalere sull’altro; il concetto del bene che, alla fine, avrà il potere di sconfiggere inesorabilmente il male era ancora lontano.
Erano entità benevole solo quelle che aiutavano l’uomo nel suo vivere quotidiano, tutto il resto veniva attribuito a figure malefiche che si opponevano alle comuni pratiche che servivano per poter rimanere vivi con quella relativa sicurezza che permetteva, a quei tempi, la sopravvivenza della specie.
A queste entità era attribuibile un cattivo raccolto, l’insuccesso nella caccia, le tempeste, ossia tutti quei fenomeni che oggi chiameremmo semplicemente “avversità”, e che sono indipendenti dalle azioni dell’uomo e dalla sua buona intenzione nell’ottenere un risultato positivo.
Tra queste, evidentemente, anche le malattie, ed in particolare quegli atteggiamenti patologicamente negativi che non trovavano una spiegazione logica negli avvenimenti: se un arto fratturato, per quanto attribuibile all’avversità di un dio, aveva comunque come origine un movimento sbagliato o una caduta, ad un fenomeno come la pazzia non era invece attribuibile un motivo concreto.
Questo concetto faceva parte di quella schematizzazione che aiutava l’uomo a dare una spiegazione razionale al suo universo e che, proprio perché rappresentava una spiegazione logica del mondo, aveva un effetto rassicurante; contemporaneamente diventò “comodo” imputare alla presenza della divinità maligna tutte le azioni cattive dell’uomo, così che in questo modo era possibile fornire un alibi alle azioni dell’uomo: il responsabile non era l’uomo, ma la divinità maligna che lo possedeva.
Questo vale soprattutto, come si è già detto, per quelle “male azioni” che non corrispondono al sentimento comune della comune etica accettata, anche se in realtà non fanno male a nessuno (sono questi i comportamenti “atipici”, da distinguere da quelli “asociali”, in quanto questi ultimi creano un danno alla società). Ecco perciò l’attribuzione al diavolo del comportamento “atipico”: mentre l’atteggiamento antisociale può essere dettato da interessi personali (furto, desiderio di prevalere sugli altri) quello atipico, non avendo una finalità concreta evidente, non può che essere attribuibile ad un’entità che cerca il male fine a sé stesso, come il demonio.
Ma anche la malattia è un male fine a sé stesso: provoca il male della persona che ne è afflitta, e deve perciò essere dovuto alla stessa entità maligna.
Da qui la necessità di scacciarlo con metodologie che fanno riferimento al suo eterno nemico, il dio buono, mentre quelle asociali devono essere combattute dalle leggi.
Tutto ciò porta evidentemente ai riti esorcistici (come vengono chiamati quando sono eseguiti dall’autorità religiosa) o da pratiche mediche popolari (quando è una persona non autorizzata dal clero ad eseguire la guarigione).
La credenza nella possessione diabolica è stata presente nel Cristianesimo fin dai suoi inizi, e l’esorcismo per
scacciare il demonio è una pratica riconosciuta ancora valida dalla Chiesa Cattolica. I Vangeli di Luca e Marco
ricordano, ad esempio, Gesù che libera alcuni indemoniati (uno tra tutti l’episodio accaduto nella città di Gerasa).
L’ esorcismo cattolico viene oggi attuato seguendo un apposito rituale (De exorcismis et supplicationibus quibusdam) ottenuto nel 1998 dalle modifiche di quello del 1614, e viene utilizzato grazie ad un “indulto”, ossia da quella pratica che prevede l’utilizzo di un rituale a seguito delle considerazioni, espresse dagli stessi esorcisti, che esso rappresenta il miglior testo in assoluto per l’esecuzione e la riuscita del rito.
Ma l’esorcismo non è solo tipico del cristianesimo. E’ presente anche nella Cabala della tradizione giudaica, nonché in quella islamica.
In questi casi, anziché il diavolo della tradizione cristiana, l’essere maligno è chiamato rispettivamente dybbuk (uno spirito dolente ed inappagato che manifesta il suo dolore e la sua frustrazione sfogandosi sui viventi) e jinn (una forma intermedia tra l’uomo e l’angelo, di carattere maligno, anche se non esclusivamente tale, presente già nella tradizione araba pre-islamica).
Gli islamici trovano proprio nel Corano una giustificazione alla credenza della possessione; il testo paragona infatti i posseduti ai comuni peccatori (… coloro invece che si nutrono di usura resusciteranno come chi sia stato toccato da Satana ….).
Una pratica praticamente identica all’esorcismo cristiano è presente anche nell’induismo; esso viene effettuato però, in questa tradizione, attraverso pratiche di tipo sciamanico, come ha studiato in maniera particolarmente accurata Harner; questa tradizione infatti, che non prevede che i propri testi sacri abbiano un potere liberatorio dal male, affida l’esorcismo a manipolazioni che vanno ad agire direttamente sulla psiche dell’uomo.
Oggi la Chiesa Cattolica, per quanto pratichi ancora l’esorcismo, è molto cauta in questa prassi data la conoscenza dei fenom eni legati alle forme isteriche, all’epilessia, alla schizofrenia, e a tutte quelle malattie mentali che sono venute dalla medicina; allo stesso modo si comportano la Chiesa Ortodossa e le varie Chiese Protestanti.
Un legame interessante unisce la pratica del tarantismo del Salento, ampliamente studiato da Ernesto De Martino, sia con le cure popolari romagnole attuate dalle medicone che con l’esorcismo vero e proprio, ad esempio quella legata al culto di San Vicinio, a Sarsina. Il rapporto tra i riti delle due diverse regioni è già stato evidenziato più approfonditamente in altri studi.
La mancanza della presenza del sacerdote nel tarantismo, l’utilizzo di tecniche coreutiche, la presenza dei compaesani, una ritualità legata alle attività domestiche, mostrano delle antiche parentele antropologiche con il rito popolare romagnolo delle medicone, mentre il riferimento a San Paolo lo apparenta agli esorcismi attuati a Sarsina.
In entrambi i casi sono presenti fenomeni appariscenti, come disturbi della psicomotricità, l’uso anormale ed eccessivo di espressioni oscene o legate a quelle forme che Bachtin, nella sua opera su Rabelais, definisce “riferibili al basso corporeo” (coprolalia); sia nel tarantismo che nell’esorcismo di San Vicinio il posseduto dimostra (almeno in un primo tempo) una violenta avversione alle immagini ed alle reliquie sacre (altro motivo per cui, nella mentalità popolare, la malattia è imputabile al demonio).
Secondo la cultura popolare prova della possessione sarebbero (tra le altre) anche la capacità degli indemoniati di esprimersi in lingue ignote al posseduto (straniere o antiche), quella di pregare con linguaggi sconosciuti che solo l’esorcista riesce ad interpretare, o quella di rigurgitare oggetti, generalmente pezzi di vetro, chiodi, brani di tessuto.
Nel proporre all’attenzione del pubblico la propria situazione patologica, nel confrontarsi con un personaggio che assume una valenza di autorità accettata dalla maggioranza della gente (il sacerdote) il fenomeno è evidentemente paragonabile a quelle che sono le pratiche psicoanalitiche, che tendono a riportare allo stato conscio le proprie preoccupazioni nascoste proprio grazie al confronto ed al dialogo; insomma non siamo
molto lontani da ciò che, più di trecento anni fa, fece affermare al gesuita Frederick Von Spee, che indagava il fenomeno della stregoneria, che si trattava di “… gente più bisognosa di elleboro che di acqua santa …”.
Ma al di là di origini patologiche di questi fenomeni, che, per quanto interessanti, solo uno degli aspetti di un problema antropologico più generale, ci interessa ribadire i collegamenti tra i fenomeni stessi e la logica religiosa che ne sta alla base.
I motivi di questo collegamento sono molti: da quello, già discusso, del concetto dualistico tra bene e male, al rinvenimento di specifici riferimenti ai fenomeni magicoreligiosi.
Il fenomeno, infatti, si esprime seguendo le regole della propria cultura e delle proprie credenze religiose:
dall’identificazione del maligno nel “diavolo” tipico del proprio credo (diavolo, jinn, dybbuk rispettivamente)
all’attribuzione a queste stesse entità delle caratteristiche specifiche che li contraddistinguono, con le differenze anche rituali che ne conseguono.
Inoltre sono rinvenibili concetti ampiamente studiati in antropologia, come la ricerca del “nome” dell’entità
maligna come elemento necessario al risultato positivo della cura. Ad esempio, nel rituale cristiano, dove il
sacerdote chiede a Dio di cacciare il demonio, segue un’analisi del fenomeno per chiarire la natura e l’attività
del demonio, compreso il tentativo di identificare il nome esatto del demonio stesso.
Questo fatto è chiaramente legato alla logica magicoreligiosa del “nome segreto”, secondo la quale solo
conoscendo questo è possibile scacciare l’entità, e che si riscontra non solo nelle pratiche esorcistiche ma in tutti i rituali di “scambio” con le figure immanenti, dalle preghiere alle antiche offerte rituali. Secondo la scienza, l’illusione che l’esorcismo funzioni è da attribuire all’effetto placebo e alla suggestione.
Lo psichiatra inglese M. Scott Peck, che ha compiuto degli studi particolarmente sull’esorcismo protestante, ne conclude che il concetto cristiano di possessione è, nella sua concretezza, un fenomeno reale, in quanto “… diviene una realtà oggettiva nel momento in cui la cura ha un risultato positivo …”.
Per questi motivi lo studio di questi fenomeni ha una rilevanza antropologica e sociale, e come tali andrebbero indagati.
Oggi, purtroppo, le medicone sono state sostituite da personaggi pericolosi, mossi quasi sempre da interessi economici quando non addirittura da morbose forme di manipolazione del prossimo.
E’ scomparsa la “credenza vera” e quindi l’effetto placebo.
Non sono a conoscenza dell’autore di questo interessante articolo ma ne riporto il link originale
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